Se c'è qualcosa che i linguisti stranieri invidiano ai colleghi italiani, è la risonanza che da noi i problemi linguistici hanno presso il gran pubblico: non esiste altro paese nel quale le pubblicazioni di divulgazione linguistica abbiano un mercato altrettanto ampio, i temi di linguistica godano della stessa audience nei mass-media, i linguisti (o almeno alcuni linguisti) possano vantare analoga notorietà. L'invidia non riguarda tanto l'aspetto economico della situazione (in quanto i guadagni che possono venire a qualche studioso di lingua non sono altro che la parziale contropartita alla carenza di risorse e soprattutto di strutture che caratterizza la ricerca italiana nel settore umanistico), quanto la possibilità di diffondere anche fuori dell'ambito specialistico il sapere acquisito dalla ricerca.
Ma tutto questo interesse per i problemi della lingua non ha un segno univoco. La ragione della ampia richiesta di divulgazione delle problematiche linguistiche non dipende dalle qualità dei linguisti italiani, ma dalle condizioni della lingua italiana, dal suo essere una "lingua in movimento": una lingua, cioè, che dopo secoli di immobilismo, soprattutto per quel che riguarda l'appartenenza sociale dei suoi parlanti (un tempo sempre e solo colti), ha incominciato a poter essere usata dalla grande maggioranza degli italiani, in tutti gli ambiti d'uso, per rispondere ad esigenze comunicative sempre nuove. Questo ha portato anche alla messa in discussione delle sue stesse strutture linguistiche, fino ad un secolo fa mantenute in uno stato quasi di ibernazione, e certamente di forte stabilità, per l'immutabilità di parlanti, ambiti d'uso, necessità comunicative.
Il movimento può provocare sconcerto in chi non è abituato a muoversi; oppure esaltazione in chi ama le novità. Ai parlanti italiani, vecchi e nuovi, è capitata a chi l'una a chi l'altra cosa. Da qui nasce l'aspetto più problematico del boom giornalistico-editoriale relativo alla lingua italiana, che tocca indifferentemente tutto quello che riguarda la lingua, con qualunque atteggiamento venga trattato: dalle grammatiche del più tradizionale stampo normativo, approdo tranquillizzante del parlante scosso dalle novità, ai dizionari dei neologismi, amena lettura ma anche fonte di certezze per il parlante inebriato, invece, dalle innovazioni.
Ed allora il linguista che non vuole semplicemente approfittare della favorevole situazione di interesse per il suo oggetto di lavoro, ma rispondere correttamente, sulla base degli strumenti del proprio mestiere, alle richieste di informazione linguistica, si pone il problema del comportamento da tenere: riproporre il sano atteggiamento scientifico di semplice osservatore, ed interpretatore, della realtà linguistica, o gettarsi nell'arena e, forte delle sue conoscenze di situazioni linguistiche del passato e di regole di buon funzionamento della lingua, rendersi paladino di un determinato uso linguistico da far emergere dalla gamma di abitudini diverse ed anche contrastanti che convivono nell'attuale momento di transizione della lingua italiana?
Si tratta, si capisce bene, di scelte individuali, tutte ugualmente legittime. Io, personalmente, propendo per la prima, che accontenta di più la mia coscienza, anche se forse soddisfa di meno il lettore. Dalla prossima volta scriverò di singoli problemi linguistici, e lo farò limitandomi a rappresentare la fenomenologia della lingua italiana. I lettori sono avvertiti: chi è interessato a riflettere sulla lingua che già usa, o sulla lingua che hanno usato i suoi avi, troverà pane, spero fresco e appetitoso, per i suoi denti; chi invece cerca regole, sia pure sensate, di comportamento linguistico, è destinato a restare costantemente deluso.
Michele A. Cortelazzo
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