Le parole non sono più di parola | |
C’era una volta un’Italia in cui le mamme e le maestre facevano sciacquare con il sapone la bocca dei bambini che dicevano le parolacce. Le brutte parole, quelle volgari, oscene e proibite caratterizzavano certi gruppi, facevano parte del linguaggio giovanile e significava rivolta, rifiuto di regole e consuetudini. Oggi invece non ci si scandalizza più. Le parolacce sono onnipresenti, le ascoltiamo in tv e le leggiamo sui giornali. Ecco perchè non desta molta meraviglia e forse neppure scandalo la sentenza della Corte di Cassazione la quale ha assolto un vigilante che, stanco di continui soprusi, aveva detto ai datori di lavoro, per bocca di due colleghi che si erano incaricati dell’ambasciata, che lui «gli avrebbe spaccato il c...». Secondo i giudici quell’espressione non è da prendere alla lettera perchè l’imputato intendeva solo dire «di essere pronto a una lotta anche aspra, ma pur sempre legittima nei confronti dei datori di lavoro». Il miglior commento è venuto dal linguista Michele Cortelazzo secondo il quale «dal tabù si è passati ad una situazione inversa: sono cadute tutte le remore sociali ma le parole non dicono più nulla. Per dirla come don Milani: bisogna dire cu.. al cu.. né una volta in più, né una volta in meno, altrimenti le parole sono destinate a svuotarsi del loro significato». Amen. (Valentino Losito) «La Gazzetta del Mezzogiorno», venerdì, 19 settembre 2003, p. 1 | |